Acque dimenticate. Un cavedano enorme, ricordi preziosi, un libro da leggere

Illustrazione Paolo Maria Fumagalli

Acque Dimenticate Racconto liberamente tratto da “Acque dimenticate – racconti senza tempo di pescatori e pesci”

di Alessandro Maria Mai

Ed. “Il Piviere” – 2015

Viviamo troppe ore, troppi giorni, in attesa di vivere davvero, di vivere la vita che vogliamo per noi. Spesso fingiamo per paura e per pigrizia che il nostro tempo non sia nostro e che i problemi siano ineluttabili. Sporchiamo la nostra felicità con brutture quotidiane che potremmo evitarci e finiamo per abituarci ad essere chi non siamo. La prospettiva di andare a pescare è il viatico con cui l’uomo cittadino può affrontare la settimana di lavoro. La giornata in pesca, lontano da tutti i pensieri e finalmente a contatto con la natura, è l’antidoto contro tutti i nostri mali, ci ricorda chi siamo veramente, ci riporta alla condizione di creature semplici e nobili.

Lontano dall’acqua un libro può funzionare quasi quanto un tramonto sul fiume, se il libro è ben scritto e le sue storie ci portano lontano con la corrente dei ricordi e delle emozioni; condividiamo lo stesso amore dell’autore, facciamo nostre queste storie d’altri, queste visioni di paesaggi e personaggi che ci sembra di aver già visto e che rinnovano sempre gioia anche solo evocandoli.  Alessandro Maria Mai è tra i nostri autori di pesca preferiti, abbiamo già recensito un suo libro, “Trote a Revù“, e con moltissimo piacere oggi vi facciamo conoscere questa strepitosa raccolta di racconti pubblicata nella primavera 2015:“Acque dimenticate – racconti senza tempo di pescatori e pesci” .

Grazie alla gentile concessione dell’autore e dell’editore il Piviere  possiamo regalare ai nostri lettori, eletti intelletti, sommi acculturati, fini intenditori, bellissimi e simpaticissimi,  un intero racconto estrapolato dal libro! Concedetevi qualche minuto di pausa da tutto ciò che state facendo e che vi sembra importante, respirate piano e leggete con calma queste pagine di emozione. 

Pescatori

Illustrazione Paolo Maria Fumagalli

Musù Nebbia

La fragranza del caffé mattutino fluttuava voluttuosa nella penombra della piccola cucina.

Come tutti i giorni, era stato papà a preparare la moka per sé e mamma.

<Va a pjè musù Nebbia a la stasiun e portli al Balin. Av a spe-c nsla barca102.>

Gino era andato a letto presto perché l’indomani papà avrebbe avuto un ospite a pesca e lui doveva accompagnarli.

L’orologio della piazza stava battendo appena le sette, ma aveva dormito a sufficienza per sentirsi sveglio come un grillo e desideroso di riempire i polmoni d’aria fresca non appena avesse terminato la scodella di pane e latte.

Infilò le ciabatte nuove e sentì la gomma intonsa cedere sotto le piante dei piedi. Doveva averne cura perché non avrebbe avuto altro per tutta l’estate. D’altronde cresceva alla velocità di un puledro e ad ogni stagione occorreva rinnovare immancabilmente il guardaroba (sempre che così si potesse definire il suo essenziale corredo). La sorellina non era da meno e Gino trovava stupefacente la quantità di quattrini che usciva dalle casse di casa per il mantenimento dei due ronzini.

Era sabato, il primo giorno di agognata vacanza dopo un logorante tormento durato nove mesi.

Nella sua personalissima scala di valori, la scuola equivaleva alla Cayenna e andare a pesca, completamente libero dal peso della catena, valeva la libertà moltiplicata per tre.

Fischiettando uscì nel vicolo, attraversò lo stradone e si diresse verso il monumento ai caduti tagliando la piazza in diagonale. Sentì lo stridio dei freni della piccola littorina in lontananza ed accelerò il passo.

Quando svoltò l’angolo del palazzo in paramano, il treno stava già ripartendo e Gino lo vide sfilare verso Rocchetta, sparire in un batter di ciglia, ancor prima che i passeggeri potessero fare capolino dal vialetto della stazione. Papà e musù Nebbia erano colleghi. Lavoravano nella grande fabbrica della provincia vicina, dove bruciavano dieci ore al giorno a stampar la plastica. Era un lavoro alienante e all’ora di pranzo, per riprender fiato e un po’ d’ottimismo, parlavano sempre d’orto e di pesca. In realtà era papà che raccontava della frega delle lasche, dei pomodori cuore di bue e del fazzoletto di terra dove crescevano quelle fave dolci così, da mangiare con il salame. Musù Nebbia viveva in città e quel tiranno della moglie non gli permetteva nemmeno di coltivare i fiori sul terrazzo. Diceva che se ci fossero stati i vasi non avrebbe potuto tenere la casa come si deve. Fosse stato per lei, avrebbe passato la cera pure su quell’angusto balocconi al terzo piano. Per madamin103, casa e marito erano niente più che meri strumenti per attestare il livello sociale e li curava con precisione maniacale.

La casa sapeva di cera e lavanda e non c’era verso di trovare la minima traccia di polvere sui mobili di fòrmica, anche quando il sole bucava diretto i vetri delle finestre. Il marito si comportava come un obbediente sottoposto, minuto e silenzioso. La tuta blu in due pezzi dell’ometto, pur scolorita, sembrava immancabilmente appena uscita dalla sartoria. Sotto il giacchino, l’arpia lo costringeva a portare camicia e cravattino scuro, manco fosse stato commendatore. Per un po’ musù Nebbia andò avanti togliendosi la cravatta appena uscito dall’androne del palazzo per poi rimettersela prima del rientro a casa, ma col tempo si era rassegnato e ormai raramente ci faceva caso. Anche le scarpe erano un segno della sottomissio-ne: sempre le stesse in ogni momento dell’anno, con ogni tempo ed in ogni luogo, nere, lucide come alla naja e con i lacci senza la minima torsione.

Della passione per le piante s’è detto poc’anzi. La pesca, almeno quella, in qualche modo sopravviveva, ma non c’era molto di cui vantarsi. Intanto per l’abbigliamento, che era lo stesso del lavoro e gli trasmetteva un greve senso di oppressione. Poi il posto, immancabilmente la solita piattaforma di cemento a lato del ponte sul Tanaro di via Nizza, raggiungibile senza lasciare il manto d’asfalto, essendo terra ed erba considerati elementi indesiderabili da madamim. In ultimo la compagnia molesta, ovverosia la moglie, che si sedeva come un’ombra dietro di lui a sferruzzare la maglia di lana, neppure fosse stata l’angelo custode o, più verosimilmente, il diavolo in persona.

Il cucchiaino lanciato da lassù seguiva l’unica traiettoria possibile, che ormai pesci e pescatore conoscevano a memoria e giocoforza il retino rimaneva sempre vuoto. Alla moglie andava bene così, almeno sul pullman cittadino che li riportava a casa non avrebbe dovuto sedere a fianco di un marito intriso dall’odore di pesce, anziché del più consono profumo d’acqua Velva.

E in fondo andava bene anche a musù Nebbia perché quella non era vera pesca, ma solo un modo per praticare una sorta di meditazione di fuga e dimenticare le angustie della vita. Prendere un pesce in quelle condizioni sarebbe stato riprovevole, nulla a che vedere con la vera pesca e dunque preferiva far cappotto ed evitare ogni discussione con la fumna 104. Durante la pausa al lavoro il Beppe lo ammaliava con i racconti del Tanaro e musù Nebbia, che si riteneva comunque un buon pescatore a cucchiaio, moriva dalla voglia di raggiungerlo a pesca, prima o poi.

Quel giorno era finalmente arrivato.

Spesso musù Nebbia lavorava anche di sabato mattina per arrotondare la paga ed era stato un gioco da ragazzi buggerare la moglie mentendo su quale fosse la vera destinazione del viaggio. Esisteva invero il problema di spiegare all’arpia come mai in busta mancassero le ore di straordinario, ma avrebbe sistemato anche quel dettaglio, prendendosela con il ragioniere delle paghe e con i sindacati. In fondo era un piano a rischio zero ed in cuor suo il brav’uomo sapeva bene che senza quelle poche ore di libertà sarebbe presto sprofondato in un pozzo di tristezza e disperazione.

Gino aveva visto musù Nebbia una sola volta ma lo riconobbe al volo perché, anche se non ricordava il viso, tutto il resto – tuta blu, borsa di cuoio e scarpe nere con i lacci, corrispondeva fedelmente all’immagine del collega di papà stampata nella memoria.

<Bundì, musù Son Gino, il figlio di Beppe. Papà ci aspetta a Tanaro.> Musù Nebbia sorrise con piacere ed il viso gli si illuminò come da tempo non succedeva. <Vieni anche tu con noi?> Sgranando gli occhi e sopraffatto dall’entusiasmo, Gino replicò d’un fiato: <Sono nove mesi che aspetto questo momento! Papà ha trovato un posto dove il fondo è tappezzato di cavedani: vedrà che roba!>

Musù Nebbia si sentì come benedetto e, nel vedere gli occhi sorridenti di Gino, ricordò che lui stesso era stato un bambino felice, al tempo in cui mamma e papà lo portavano sovente a pesca. Poi, come logico, la vita aveva preso il sopravvento ma gli riusciva comunque difficile capire come l’empatia con i fiumi e la natura avesse potuto avvizzire così velocemente dopo il matrimonio, come una pianta senz’acqua.

Gino prese il sorriso dell’uomo come un cenno d’assenso e si precipitò giù dalla scaletta per attraversare il sottopasso della ferrovia e lasciarsi alle spalle il paese. Tanaro non era distante, bastava tagliare i piazzali di sabbia della cava del Balia per arrivare alla barca di papà, ormeggiata poco prima dell’isolone.

<Ecco, – disse tra sé musù Nebbia – a questo non avevo pensato. Mi impolvererò le scarpe e, se non riuscirò a trovare un modo per pulirle, cula cristiandor am farà amnì luc!> 105

Fu l’ultima volta che pensò alla moglie: nulla e nessuno l’avrebbero più distolto dal godersi fino in fondo la gioia di andare a pesca con il suo amico Beppe.

Quando Gino si arrestò sul ciglio dell’argine, musù Nebbia che gli stava dietro provò l’impulso di scostarlo bruscamente, tanta era la voglia di sopravanzarlo e vivere finalmente la magia del Tanaro. Non appena il ragazzo iniziò la discesa, davanti agli occhi si materializzarono tre bande colorate, azzurrina la prima, quindi verde e poi blu. Erano i colori dell’acqua, dei pioppi e del cielo. All’estremo del blu cobalto, con il naso ben all’insù, chiuse gli occhi per lasciare che il profumo del fiume gli entrasse a fondo nei polmoni e nel cuore. Quella vista e quegli odori erano un dono così grande che non avrebbe chiesto nient’altro a quel dì benedetto. <Bundì, musù Nebbia!>

Beppe li aveva visti mentre trafficava con la corda dell’ancora e sorrideva soddisfatto. <Forsa! nduma! >106 li invitò a scendere con un ampio gesto e si preparò ad accoglierli in barca.

Gino si tolse le ciabatte e saltò dentro come aveva fatto centinaia di volte in passato. Musù Nebbia non era pratico e non fosse stato per l’aiuto del barcaiolo avrebbe fatto oscillare così tanto il barcè da spedire tutti e tre in acqua.

<Allora, ieri sera ho dato un’occhiata davanti a quella prismata e ho visto dei bei pesci e pure di taglia. Oggi ci divertiremo, vedrà!>

Acque Dimenticate

Illustrazione Paolo Maria Fumagalli

Musù Nebbia si sedette a metà della barca dando le spalle al collega, mentre Gino si sistemò a poppa, di fronte ai due adulti. Appoggiandosi con tutto il peso del corpo alla pertica conficcata nella sponda, Beppe diede una spinta decisa mettendo la barca di traverso per farle compiere una rotazione completa ed in un attimo presero il filo della corrente. Ad ogni spinta del bastone sul fondo si spostavano in diagonale verso il centro del fiume, arrivando in breve al luogo prescelto.

L’acqua correva allegra e gorgogliava con discrezione. Mollarono l’ancora quando ancora la barca si trovava parecchio a monte dell’obiettivo, riuscendo a farla arrestare nel punto migliore per la pesca, quando il peso fece presa tra i massi del fondo. Padre e figlio erano a loro agio, il primo ben in piedi sullo scafo e già intento a scrutare l’acqua in cerca dei pesci, il secondo seduto sull’ultima traversina con gli occhi sgranati come al solito, pronto ad attendere agli ordini del papà. Beppe voleva che il suo amico vivesse una mattinata speciale ed aveva istruito Gino affinché musù Nebbia potesse disporre dell’attrezzatura a comando. Ad un cenno, Gino prese la canna da cucchiaio e la porse all’ospite, sganciando le punte dell’ancoretta dall’anello scorrifilo per predisporla all’azione.

Musù Nebbia era felice come non gli capitava da tempo e si sentì colto da una tale frenesia da dubitare delle proprie capacità di pescatore. Nel momento in cui ricevette la canna dal ragazzo, vide con imbarazzo un accenno di tremore nelle mani e si chiese se avrebbe deluso il suo amico con qualche manovra sbagliata.

A pochi metri dalla barca una sagoma argentata bucò la superficie con il dorso, guastandone la perfezione. L’increspatura discese a valle un istante per poi sciogliersi con fluidità nella vastità d’acqua che li circondava. Osservando con attenzione, musù Nebbia vide le ombre scure dei cavedani sul fondo e, a mezz’acqua, i guizzi argentati dei pesci che si alzavano verso l’alto in cerca di un insetto.

Beppe lo invitò con un sussurro a lanciare il cucchiaio. Era stato istruito a dovere il giorno prima ai tavoli della mensa: lancio lungo alle ore dieci, filo a fare pancia, recupero nervoso a strappi. L’esca doveva entrare in pesca nel momento esatto in cui avesse toccato la superficie e le pause tra uno strappo e l’altro durare lo spazio di un battito di ciglia. Quell’oggetto metallico doveva sembrare in tutto e per tutto ad un esserino ferito in fuga, che cercava di sfruttare la velocità della corrente per sparire alla svelta.

La piccola paletta era argentea ed il corpo di un bel verde vivo, segnato da brevi tratti bianchi orizzontali e paralleli. Mentre lo guardava, sentì la voce dell’amico che ne aveva intuito i pensieri: <È un grillo! I cavedani ne vanno matti in questa stagione. Faccia come le ho detto: strappo, recupero, strappo, recupero… Appena arriva la botta, ferri con decisione, mi raccomando.>

Il momento fatidico era arrivato. Alzò l’archetto del mulinello, stese il braccio alla sua destra e dopo una breve esitazione fece partire l’esca con un movimento fluido e deciso.

Il cucchiaino volò lontano, perfettamente ad ore dieci. Il “bravo” che padre e figlio gli tributarono all’unisono lo riempì di soddisfazione. Via! Canna bassa, recupero, strappo, recupero, strappo, recupero… <C’è! C’è!> gridò musù

L’euforia durò poco, perché al primo salto fuori dall’acqua il pesce se n’era già andato

<S’è sganciato…> <Non fa niente. Vedrà che se continua a pescare bene come prima, ne prenderà Stia sereno e quando è pronto, lanci nello stesso punto.>

Gino aveva allargato le gambe ai lati della barca e messo i piedi in acqua, adorava sentire la pressione della corrente sulle caviglie. Sapeva che papà aveva ragione e dopotutto come pescatore muso Nebbia era ben meglio di quanto si fosse aspettato.

Vide il bagliore del cucchiaio saettare verso monte e, poco dopo, il cerchio in superficie. nel punto in cui aveva bucato il fiume. Al primo lancio non successe nulla ma al successivo la canna si animò d’improvviso, piegandosi ad arco. <C’è! C’è !>

C’era davvero e sembrava bello. Gino ebbe la sensazione che musù nebbia avesse preso la cavedanessa e pensò che era proprio un tipo fortunato.

Secondo papà, anche parecchio tempo dopo la frega, le grosse femmine mantenevano la posizione più favorevole nel branco che era quella di testa. La paletta del cucchiaino non aveva fatto che pochi giri in acqua e dunque c’erano buone probabilità che muso avesse incocciato in uno dei pezzi da novanta.

In ogni caso era un bel pesce e nell’agitazione della lotta. muse Nebbia si era alzato in pedi per contrastarne le fughe.

Fu un errore fatale.

Il cavedano partì in favore di corrente in direzione del pescatore e, arrivato nei pressi della barca, ci si infilò sotto. Musù Nebbia, in preda all’eccitazione, tuffò lo canna sotto la barca per assecondare le mattane del pesce e, sbilanciato dalla mossa, entrò di testa in acqua pure lui senza quasi sollevare uno spruzzo.

Gino sentì l’imprecazione di papà e in un attimo lo vide tuffarsi in favore di corrente. Non era preoccupato per l’ospite e tanto meno per papà, che era un nuotatore formidabile e gli aveva insegnato perfino ad uscire dai mulinelli. Era dispiaciuto per la canna, che probabilmente non avrebbero recuperato mai più, e altrettanto per quel povero pesce.

Dopo qualche secondo vide papà riemergere a valle, trascinando letteralmente per la collottola il suo amico. La cosa buffa era che musù Nebbia stringeva la canna tra le mani e la cavedanessa – o cosa diavolo fosse – era ancora agganciata e si dimenava in superfìcie come un ossesso! Arrivato nei pressi della barca, con la mano libera papà ne arpionò il fianco, scaraventando a bordo senza tanti complimenti l’ometto e la canna. Musù Nebbia si alzò barcollando ma deciso a continuare la lotta, in piedi di fronte a Gino che in breve si trovò mezzo bagnato pure lui per le gocce che scendevano a catinelle dal vestito fradicio dell’ospite.

Ci volle del bello e del buono per avere la meglio di quel cavedano enorme.

Acque Dimenticate

Illustrazione Paolo Maria Fumagalli

Quando infine il pesce fu a portata di guadino, lesto come un furetto Gino sciabolò la rete sotto il ventre biancastro trascinandolo in barca. Solo allora papà saltò anche lui a bordo, sbilanciando l’imbarcazione e rischiando ancora una volta di far finire a bagno l’amico.

Era un gran pesce e pure femmina. Musù Nebbia non le staccava gli occhi di dosso, palesando un’allegria ed un’emozione che Beppe mai aveva visto prima negli occhi del collega. Celebrarono la cattura con sorrisi, strette di mano e una bella gollata dalla bottiglia di Barbera. Nessuno accennò al bagno imprevisto.

Poi, anche se erano fradici tutti e tre, ripresero la pesca con entusiasmo, facendo buone catture e chiacchierando con allegria.

Il caldo sole di giugno li asciugò in fretta e le ore successive volarono via, veloci come la palla di uno schioppo. Verso il mezzogiorno affettarono un salame ed una bio- va e mangiarono in silenzio seduti sulla barca in mezzo al fiume, riempiendosi gli occhi di tanta bellezza. Gino pensò che non ci voleva molto per essere felici e probabilmente anche i ricchi sugli yacht di Cap Ferrat che vedeva nelle foto sui giornali della bottega di Marco il pruché, facevano in fondo le stesse cose per godersi la vita. E chissà se era vero che caviale e Sciampagn erano meglio del salame e della Barbera: a giudicare dai colori delle vivande non si sarebbe detto proprio!

Quando il campanone suonò la mezza si resero conto, a malincuore, che era venuto il momento di tornare.

Musù Nebbia pensò di nuovo alla moglie, ma non provò sgomento. Beppe invece sentì un rimescolio nella pancia: sarebbe stata  dura per l’amico rientrare a casa in tali condizioni,  con i vestiti che sapevano di fiume e senza uno straccio di scusa. Non ebbe il coraggio di chiedere cosa avrebbe detto a madamin, limitandosi ad una virile stretta di mano e ad un sorriso d’intesa quando si accomiatarono.

Gino accompagnò musù Nebbia alla stazione, attraversando i lunghi piazzali di terra e sabbia della cava. Non fosse bastato quanto già accaduto, ci si mise pure la polvere a stendere un’ulteriore strato di lordura sulla divisa deH’ometto. Ma nulla avrebbe incrinato il sorriso beato di chi aveva ritrovato un po’ di gioia di vivere, quel mattino sul Tanaro.

<A presto musù Nebbia, venga ancora a trovarci!>

L’uomo lo salutò con un cenno della mano dallalto della carrozza. Poi chiuse la porta mentre il treno si stava già avviando verso Asti e lui verso il proprio destino.

Gino ciabattò verso casa. Gli era rimasta voglia di pescare e occorreva la canna per le alborelle che teneva dietro la porta d’ingresso. Con quella ed un po’ di vermi avrebbe procurato la cena per tutta la famiglia.

Beppe trascorse la domenica con il nodo nella pancia. Quando salì sul treno il lunedì mattina era molto preoccupato. Cercò il suo amico nella solita carrozza in fondo al treno, ma non lo vide. Poi si accorse che una persona gli faceva cenno con la mano: era lui, musù Nebbia! Conciato così non l’avrebbe mai riconosciuto. Vestiva una maglietta verde ed un paio di pantaloni marroni, scarpe color cuoio ed un maglioncino blu sulle spalle. Sorrideva. <Com’è andata?> <È difficile risponderle, però qualcosa è cambiato, amico mio. Pensi che, mentre tornavo a casa, ho capito quanto sia importante nella vita essere sinceri ed onesti, soprattutto con sé So che è logico e scontato, almeno per noi, ma in verità devo ammettere che da tempo ingannavo me stesso. Pensavo a mia moglie e al nostro matrimonio e mi sono reso conto che per il quieto vivere non le ho mai espresso chiaramente il mio desiderio di stare a contatto con la natura, oltre a tante altre cose. Arrivato ad Asti sono passato dal mercato e mi sono comperato qualche vestito nuovo. I soldi nel portafoglio erano ancora tutti bagnati e ho fatto un po’ fatica a farli accettare, perché nessuno credeva alla mia storia. Quando sono tornato a casa ho detto semplicemente la verità. Subito madamin mi ha guardato come si guarda un pazzo furioso, sbiancando in volto. Poi, parola dopo parola, abbiamo cominciato ad ammettere che così la nostra vita non aveva molto senso e forse avremmo dovuta ripensarla un po’ da capo. Beh, non è che adesso sia tutto risolto, ma almeno ci stiamo dando una possibilità. Pensi che sta mattina, mentre uscivo di casa, madamin si è lasciata scappare che il verde mi dona.>

Beppe rimase in silenzio.

Non sapeva che dire, a parte il fatto che non capiva minimamente come fosse possibile vivere lontano da un fiume c dalla natura. Non era certo stupito per il fatto che musù Nebbia potesse pensare ad una vita diversa, con meno fabbriche e poco cemento, anche se bisognava pur lavorare per campare. Guardò dal finestrino e vide l’ansa di Tanaro sfilare via, man mano che il treno prendeva velocità.

Quello che non tornava minimamente era l’egoismo di noi uomini, tutti concentrati su noi stessi e senza attenzione per l’ambiente in cui viviamo. Si domandò come fosse possibile che i nostri politici non si prendessero mai cura della natura, perché era chiaro che, devastandola, la natura non avrebbe più potuto prendersi cura di noi.

Poi si ricordò della maestra che parlava di Atlantide e della civiltà perduta e capì che non saremmo mai andati oltre un certo limite, la natura stessa lo avrebbe impedito.

E così, voltandosi verso l’amico, disse tutto d’un fiato: <Perché sabato non viene ancora a pescare con noi?>  L’estate trascorse in un baleno.

Gino vide assottigliarsi velocemente la suola delle ciabatte a furia di andare a zonzo tutto il giorno e perse il conto delle alborelle catturate.

Un mattino sentì bussare alla porta mentre rimestolava svogliatamente nella scodella di pane e latte. Era l’ultimo giorno di vacanza.

Papà andò ad aprire e vide che l’uomo alla porta era musù Nebbia. Nonostante l’insistenza, l’amico non volle entrare e si limitarono ad una breve discussione sulla soglia. Poi si abbracciarono.

Gino intravide la sagoma di una donna poco lontano con una grossa borsa in mano, che rispose con un cenno al saluto di papà mentre musù Nebbia le cingeva la vita incamminandosi verso la piazza.

Papà rientrò in casa silenzioso e con la faccia contratta. Iniziò a sorbire il caffè ma ripose la tazzina sul tavolo dopo il primo sorso.

Gino non ebbe il coraggio di chiedere il motivo della visita, qualcosa nell’aria lo intimoriva rendendolo incapace di muoversi e di fiatare.

Finalmente, dopo un attimo lungo un giorno, con un sospiro ed un colpo di nocche sul tavolo, papà ruppe quel sentire greve con una frase bellissima:

<Preparati che andiamo a pesca!>

 

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Note:

102 Va a pjè musìi Nebbia a la stasiun e partii al Balin. Av a spe-c ‘nsla barca. – Va a prendere il signor Nebbia e portalo al Balin. Vi aspetto sulla barca.

  1. madamin – signora, signorina
  2. fumna – moglie
  1. cula cristiundor am farà amnì lue! – quella maledetta mi farà diventare matto!
  2. Forsa! nduma! – Dai! Andiamo!

 

 

 

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