Qui di seguito, un articolo che ho scritto per il numero di giugno del mensile “D Lui”, in edicola con “la Repubblica”. Lo scopo: spiegare la pesca a chi non la conosce. Le immagini sono di Alessandro Gandolfi, che ha seguito noi di Anonima Cucchiaino in due uscite: in barca sul Po, e a trote sul Sesia.
Un manager di Goldman Sachs e un cronista finanziario del Wall Street Journal si sono divertiti a stilare un prontuario del gentiluomo moderno. Fra le prescrizioni, alla posizione 26 della lista, c’è “impara a pescare con la mosca”. Una perla incastonata fra “niente selfie” e “un uomo anziano dovrebbe tenere i capelli corti”.
Che per due newyorkesi la pesca sia una cosa importante non stupisce. Negli Stati Uniti pescare è una sorta di religione nazionale, maschile e non solo. Non c’è narratore americano che si sia sottratto dallo scrivere di pesci e di come insidiarli. Il contagio non riguarda solo Herman Melville, padre di Moby Dick, ed Ernest Hemingway. Si trovano trote prese all’amo nei racconti di Carver, e pesci gatto strappati al fondo sabbioso del Sabine River nei noir di Joe Lansdale, ambientati in Texas. Paolo Cognetti, che di letteratura americana è più che appassionato, nel libro A pesca nelle pozze più profonde racconta di avere cominciato a pescare con lo scopo di diventare uno scrittore migliore, convinto che le due attività avessero molto in comune. Una visione romantica, che si scontra con il luogo comune ancora diffuso in Italia.
Da noi l’immagine del pescatore resta incagliata allo stereotipo del pensionato seduto su un secchio ribaltato, in noiosa attesa sul ciglio del lago, dove almeno non c’è la moglie che lo costringe a mettere le pantofole. Ma quel vecchietto ideale, scorbutico e con il frigorifero pieno di scatole di vermi, somiglia poco a molti pescatori sportivi di oggi. Da Nord a Sud – più a Nord che a Sud – nascono gruppi di uomini uniti dall’amore per la pesca. I ragazzi di Street Fishing Milano battono i Navigli in caccia di persici e lucci, che poi rilasciano vivi in acqua dopo qualche fotografia da mostrare sui social network. Sopravvivono, dall’Abruzzo alla Valle d’Aosta, storici
club di pesca con la mosca, ristoro per l’anima di commercialisti e medici che nel weekend amano camminare all’aperto, senza dovere cercare funghi o giocare a golf.
A Roma, fra il Tevere e i laghi fuori porta, alcuni giovani pescatori 2.0 sono diventati stelle del web. Ragazzi con la canna da pesca sempre pronta nello zaino, che fanno due lanci prima di entrare in ufficio o dopo le lezione in università. Il precursore del modello è Federico Marrone, che oggi ha 29 anni. Ha cominciato da pischello prendendo all’amo cavedani a due passi da Ponte Milvio. Oggi cattura pesci meravigliosi ovunque nel mondo, ha migliaia di follower e con il logo Urban Fishing vende le esche che produce artigianalmente. «Quando ho iniziato, più di dieci anni fa, sul Tevere in città incontravo per lo più pensionati. Riempivano sacchi di plastica di pesce da portare a casa per cena. Adesso se vai al tramonto all’Isola Tiberina trovi ventenni che pescano per il solo gusto di farlo. Conoscono i pesci, li studiano, li amano. E li rilasciano vivi in acqua. È giusto: catch & release».
I pescatori 2.0 al verme preferiscono le esche artificiali, alla base della mosca e dello spinning. Tecniche antiche, a lungo destinate a una nicchia di nobiluomini scozzesi o della British Columbia, poi diffuse in tutto il mondo come hobby e come stile di vita. Nella mosca, ad attrarre i pesci sono riproduzioni di larve e moscerini, costruite con setole, piume e filo da legatura. Nello spinning, il pescatore lancia in acqua pesciolini di balsa e fibre plastiche. In comune, mosca e spinning hanno il fatto di essere attività dinamiche, che spingono a esplorare ambienti naturali nascosti, nel corso di lunghe camminate o di silenziosi pellegrinaggi in barca. Un’attività catartica, di quelle che risucchiano l’attenzione al punto da contrarre il tempo e cancellare il senso dello spazio. Capita, alla fine della giornata di pesca, di accorgersi di avere percorso molti chilometri. «Ma dove ho lasciato la macchina?», ti chiedi. E all’imbrunire scopri con terrore, solo grazie alle mappe dello smartphone, di dovere affrontare un lungo rientro risalendo il fiume. Una condizione che quasi nulla ha a che spartire con l’estenuante attesa sotto il sole che riempie le giornate del pescatore con la panza e il cappellino nelle vignette della Settimana Enigmistica.
Capisco cosa provano i ragazzini che si avvicinano oggi alla pesca, perché è successo anche a me. E so che, una volta presa quella strada, è difficile tornare indietro. Nel 2001 con tre amici abbiamo fondato a Milano la confraternita Anonima Cucchiaino, dal nome della più antica delle esche da spinning, che somiglia appunto a un cucchiaio. Riavvolgendo il filo con il mulinello, sotto le sollecitazioni nervose del cimino della canna, l’unghia di metallo scintillante sguiscia sotto il pelo dell’acqua o rasente al fondo, come farebbe un pesciolino in fuga da un predatore. Uscita dopo uscita, la corsa subacquea di un piccolo pezzo di acciaio diventa una cosa importante. Dirigere a colpi di manovella il movimento di un pesce che non esiste – un oggetto animato, che vive grazie ai tuoi gesti – finisce per essere un rifugio e un mantra.
«Davvero anche a te piace pescare?», ci siamo detti a scuola, in un cambio d’ora all’ultimo anno di liceo. Abbiamo scoperto che tutti e quattro avevamo cominciato già da bambini. Ci siamo raccontati a vicenda gli episodi dei nostri battesimi: interminabili pomeriggi in gommone al mare, albe al lago senza prendere niente, ami conficcati nei polpastrelli delle dita. Di ritorno dalle feste dei diciottesimi compleanni, abbiamo cominciato a fare un passo sul fiume prima di tornare a casa, con il sole ancora basso. Eravamo e siamo sempre gli stessi: Francis Needham, Jacopo Savoia, Pietro Invernizzi e io (Franco Vanni, Ndr). Sono passati diciotto anni. La pesca ci ha portato in Irlanda, Malta, Danimarca, Alaska, Madagascar e Mauritius (non sempre tutti insieme, purtroppo). Non abbiamo ancora smesso e non penso smetteremo.
Le fotografie in queste pagine raccontano due giornate di pesca con Anonima Cucchiaino, in due situazioni davvero molto diverse fra loro. Siamo andati sul Po in barca in cerca di aspi, pesci che un tempo qui nemmeno c’erano. Animali arrivati da lontano, per la volontà
di pescatori sognatori e irresponsabili, che non si arrendevano all’idea di
dovere raggiungere il Danubio per insidiare specie così affascinanti e hanno deciso di buttarli in acqua anche qui: lo scintillante aspio e il gigantesco siluro, che ha tristemente soppiantato il luccio, predatore che nei corsi d’acqua di pianura non si fa quasi più vedere. Dopo l’uscita sul Po abbiamo fatto passare qualche giorno fra ufficio e famiglia, poi siamo
tornati sul fiume, questa volta in montagna sul Sesia, con i suoi piccoli
affluenti, dove vive e caccia la trota marmorata, specie preziosa e ancestrale, regina dei corsi d’acqua del versante meridionale
delle Alpi.
In Italia siamo in tanti, ma quanti non è dato sapere. A rilasciare le licenze sono le Regioni, e una stima seria del numero dei pescatori dilettanti non esiste. La Fipsas, federazione iscritta al Coni, conta oggi 90mila agonisti, che vivono la pesca come una gara: vince chi prende più pesci. Il numero dei “garisti” è in calo, come in tutto l’Occidente. E non è detto sia un male, anzi. Quella che va sempre più affermandosi è una visione della pesca intima, contemplativa e rispettosa dell’ambiente. I pescatori oggi si fanno “sentinelle ambientali”. I primi sono stati i senatori dello Spinning Club
Italia, che segnalano alle forze dell’ordine situazioni di inquinamento o di pesca di frodo. E collaborano con associazioni ambientaliste per progetti di salvaguardia.
Noi di Anonima Cucchiaino abbiamo partecipato a progetti di tutela della trota marmorata nell’Adda e del temolo padano nel Sesia. «Molti parlano di ecosistemi acquatici, ma chi li conosce meglio sono i pescatori,
perché ne fanno parte», disse anni fa il fondatore del marchio Patagonia,
Yvon Chouinard. Alpinista e pescatore appassionato, Chouinard si batte per la demolizione delle “micro dighe” costruite nel Novecento e poi abbandonate, che sbarrando il corso dei fiumi ne uccidono la vita, alterandone la portata e impedendo la risalita dei pesci. Un impegno
che molti animalisti convinti, ostili alla pesca, faticano a comprendere.
Così come i pescatori da vignetta, immobili sul ciglio del fiume a vedere il
tempo che passa.
Franco Vanni
Condivido ogni singola parola…purtroppo, nei posti che frequento, il rispetto per i pesci e per l’ambiente è ancora parte di una piccola “élite” di pescatori. Ad ogni modo è un bellissimo articolo che induce speranza; ri-leggerlo è stato un piacere.
Grazie di cuore Mattia, davvero. A differenza di altre (il trekking, la corsa, l’alpinismo …) la nostra è una passione difficile da comunicare a chi non è stato contagiato. Buona giornata e speriamo di vederci un giorno sul fiume!
Verissimo! Mi farebbe davvero, davvero piacere trascorrere una giornata di pesca con voi.
Io solitamente pesco nell’alto mincio e nel garda; saltuariamente nell’adda. Mi sposterei volentieri anche in altri ambienti che non conosco.
Spero proprio si possa organizzare!
Buona giornata!