Il nuovo romanzo di Franco Vanni, fiero militante dell’Anonima Cucchiaino, è finalmente nelle librerie, su Ibs e su Amazon. “La regola del lupo“, edito da Baldini+Castoldi racconta di un omicidio a bordo di una barca sul Lago di Como e come poteva cominciare, se non con un pescatore che traina all’alba in cerca di lucci?
Per gentile concessione dell’autore, qui, vi potete leggere il primo capitolo, poi correte a comprarne più copie che potete.
Pescallo, Comune di Bellagio
Più di ogni cosa, detestava la pianta di glicine. Con gli anni era arrivato a odiare tutto quello che un tempo lo aveva reso felice, mattino dopo mattino, nelle sue uscite di pesca. Il fruscìo dell’acqua nera sullo scafo della barca. Il vento leggero dell’alba, che spazzava via l’oscurità. La vista del porticciolo che si allontanava, e degli alberi secolari protesi sul lago come volessero specchiarsi sulla superfi cie. Uno spettacolo che conosceva e che gli era diventato insopportabile.
Quella mattina, come ogni mattina da quando era ragazzo, aveva slegato la piccola barca di alluminio dalla catena a cui era assicurata. L’aveva lasciata scivolare sulle stecche di legno marcio, lungo la rampa di cemento che separava la terra dall’acqua del lago. Era salito a bordo, con passo sicuro. Aveva dato i soliti dieci colpi di remi per uscire dal golfetto di Pescallo, paese di pietra, muschio e intonaco colorato che i turisti venivano a vedere da tutto il mondo. E dove lui era nato, tanti anni prima. Aveva dato uno strattone alla cinghia di avviamento e il piccolo motore fuoribordo si era messo a borbottare. Ora era lì seduto, curvo sulla panchetta. Ruotò leggermente la manetta del gas e la barca cominciò la sua lenta progressione sotto costa verso nord ovest, in direzione di Bellagio.
La lenza era pronta in un catino di plastica azzurra, posato sul fondo annerito della barca. Su un grosso pezzo di sughero, aveva avvolto un centinaio di metri di cordino da arrampicata, resistente a qualsiasi trazione. Poi un piombo pesante, a forma di limone, a cui aveva legato cinque metri di nylon spesso. Al nylon era annodata l’esca, una foglia di metallo scintillante che trascinata lentamente dal moto della barca guizzava e brillava in acqua come un pesce in fuga. Al posto della coda, il pesciolino di acciaio lucido aveva tre ami affi lati, saldati fra loro in una piccola e micidiale ancora con le estremità appuntite.
Uscendo dal porticciolo di Pescallo, il vecchio guardò verso riva. Vide sfi lare le barche a vela alla fonda, la vecchia torre della famiglia Sfondrati, i giardini curati delle ville che declinavano fi no al pelo dell’acqua. Poi le scogliere alte, che nascondevano alla vista il verde del parco della Fondazione Rockefeller. Ancora più avanti, le cascate di fi chi d’India, e i due cipressi che vigilavano sul lago come gendarmi, aggrappati su uno scoglio solitario. Quando scorse il maledetto glicine, rallentò la marcia del motore. Era lì, in corrispondenza di quella pianta antica e rigogliosa, che da sempre calava la lenza in acqua, e a velocità minima cominciava la pesca a traina in caccia di lucci. Pesci ancestrali, immutati e indifferenti a millenni di evoluzione. Animali sbagliati, che paiono coccodrilli con le pinne, e che hanno troppi denti nell’enorme bocca a forma di becco. Predatori efficienti. Anime silenziose e invisibili, abituate alle profondità nere e vertiginose del lago di Como, che sott’acqua replica in negativo l’andatura scoscesa delle montagne che lo circondano.
Quando fu sicuro di avere superato la chioma colorata del glicine, il vecchio calò in acqua la lenza. Prima il cucchiaino d’acciaio lucido con i suoi ami, quindi il nylon reso opaco dall’uso, infi ne il grosso piombo, il cui peso trascinò rapidamente dietro di sé diverse braccia di cordino sporco.
Se detestava la pianta di glicine, è perché da troppo tempo aveva smesso di funzionare. Da ragazzo andava a pesca all’alba per sfuggire al futuro, alle regole, al mondo dei grandi. Divenuto adulto, usciva in barca prima dell’inizio del turno in fabbrica, per dimenticare le pene del lavoro e le responsabilità della famiglia. Ogni giorno, per tanti anni, quella rigogliosa pianta di glicine era stata la sua salvezza e il suo talismano. Quando, navigando lungo la costa, cominciava a intravederla, sapeva che di lì a poco avrebbe diminuito la velocità, avrebbe buttato la lenza in acqua e si sarebbe ripetuto il miracolo. Tutte le ombre e le paure della vita sulla terraferma sarebbero svanite.
Calando la lenza, avrebbe ritrovato quel senso di pace che fuori dall’acqua, in mezzo ai rumori e alle persone, non aveva mai conosciuto, e pensava nemmeno esistesse. Una pace piena, fetale, che viene prima della società e degli uomini. La pace della pesca solitaria, fatta di silenzio e contemplazione. Poi qualcosa si era guastato, e la colpa non poteva che
essere di quella maledetta pianta.
La prima volta se ne era accorto quando sua fi glia era uscita di casa per trasferirsi a Milano, come molti giovani di Bellagio. La sera, senza dire molto, l’aveva aiutata a caricare l’auto e l’aveva salutata con un abbraccio. L’indomani, come ogni alba, aveva messo la barca in acqua, aveva acceso il motore, e giunto al glicine aveva rallentato la corsa per fi lare la lenza dietro allo specchio di poppa. Ma la calm ancestrale della pesca non gli aveva fatto visita. Anzi l’orrore della vecchiaia, che lo perseguitava a terra, lo aveva assalito con forza ancora maggiore. Percepì, potente, la paura di morire. Sentì amplifi carsi i dolori e i fastidi che lo affl iggevano, di cui non parlava volentieri nemmeno col medico. Pensieri invasivi, maligni e tossici, che la vista del glicine non era più in grado di cancellare e che anzi accresceva. Vedeva la lenza sparire nell’acqua buia, ma quelle sensazioni nere non si scioglievano nell’oscurità del lago. La vecchiaia, brutta bestia, non poteva essere ingannata e vinta con ami e fi lo da pesca. Era un avversario nuovo e tenace. Più del luccio, più della trota, più del salmone atlantico di Scozia, di cui aveva visto tante fotografi e e ascoltato meravigliosi racconti. Eppure, per inerzia e per abitudine, alle uscite di pesca mattutine non riusciva a rinunciare.
Il vecchio fi nì per convincersi che la colpa di tutto fosse di quel maledetto glicine, che col tempo aveva perso il suo potere di riportare nella sua testa la pace degli uomini antichi. A questo pensava quel giorno – al glicine e a quello che era successo negli ultimi anni – mentre procedeva lentissimo lungo la costa verde che da Pescallo porta a Bellagio, una mano sulla barra del motore e l’altra a serrare la lenza. Il sole era ancora solo un’idea, nascosto dietro alla barriera delle montagne incombenti sull’acqua immobile, da cui cominciava a levarsi una luce pallida e diffusa.
Di tanto in tanto, lasciava dritta la barra del motore e si passava una mano sulla barba bianca. Non era proprio un tic, ma un’abitudine frequente, un piccolo rituale. O almeno, così gli piaceva pensare. Allo stesso modo, sistemava di frequente la visiera del berretto blu che aveva in testa ogni volta che metteva piede fuori casa, un cappello da baseball con impresso il logo della fabbrica di munizioni in cui aveva lavorato per quarant’anni. La stava sistemando, per l’ennesima volta, quando di colpo la lenza diede uno strattone. Gli bastò un attimo, un colpo di polso, per capire che non era un pesce. Troppo fermo, troppo pesante. Mise il motore in folle e recuperò il cordino a due mani. Dopo il cordino arrivò il piombo. Quindi, il nylon spesso. Il peso morto si avvicinò alla barca lentamente, scuro e sinuoso come una razza oceanica. Quando fu vicino al bordo, lo afferrò e lo issò in barca. Era un grosso sacco nero, di plastica spessa, sporco e reso viscido dalle alghe. Forse un tempo aveva contenuto concime, o combustibile da stufa. «Figli di puttana, buttano di tutto», borbottò il vecchio fra sé.
In decenni di pesca gli era capitato di arpionare con la lenza e portare in barca uno stivale di gomma, la forcella di un motorino, il telaio di una sedia da uffi cio. Flaconi di plastica di ogni forma e colore, nuovi, o antichi e ormai sgretolati dall’acqua e dal tempo. Aveva pescato stracci putrescenti, cartucciere da caccia, secchi da muratore e il paralume sferico di una lampada da giardino. Ogni volta che si accorgeva di avere attaccato all’amo un oggetto morto, malediceva la mano anonima che aveva lasciato scivolare quella porcheria sotto il pelo dell’acqua, trasformando il fondale in discarica. Liberò il sacco nero dagli ami e lo gettò sul fondo della barca, ripromettendosi che lo avrebbe buttato nell’immondizia una volta rientrato a Pescallo. Alzò lo sguardo e si accorse di essere arrivato quasi alla punta di Bellagio, che divide il lago nei due rami, profonde ferite simmetriche nel corpo della montagna, colmate dall’acqua come una scura cicatrice. Spostò la barra del timone e la barca disegnò una curva ampia sulla superficie, fino a tornare sulla propria scia, verso la direzione da cui era arrivata. Il pescatore rallentò, calò di nuovo la lenza in acqua e puntò con la prua verso Lecco, sempre costeggiando.
Proprio nel momento in cui il glicine entrò nel paesaggio, questa volta sulla sua destra, sentì il primo scoppio. Un colpo secco e senza corpo. Uno sparo di pistola. Poi l’incomprensibile urlo di un uomo. Quindi il secondo colpo, simile al primo. Accelerò un poco e proseguì nella direzione degli spari, senza preoccuparsi di recuperare la lenza, che pesava in acqua, tesa dietro alla poppa. Doppiato il capo vide da lontano la sagoma di una barca a vela bianca, all’ancora proprio fuori Pescallo, con un gommoncino calato a poppa. Era la barca del giovane milanese che tutti in paese chiamavano Filippino.
Ti è piaciuto il primo capitolo? Franco lo presenterà venerdì 1 marzo a Bellagio (sala consiliare, ore 21), sabato 2 marzo a Courmayeur (biblioteca comunale, ore 18), mercoledì 6 marzo a Piacenza (Fabbrica&Nuvole, via Roma 163, ore 18), lunedì 11 marzo a Milano (Feltrinelli Duomo, ore 18.30)
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