Credo che ognuno di noi abbia sognato di dimenticarsi la routine del lavoro e trasferirsi in un paradiso tropicale a fare quello che ama: pescare, aprire un chiringuito o un ristorante, fare la guida turistica oppure semplicemente a godersi la vita. Qualcuno ogni tanto ce la fa. Semplicemente molla tutto e parte. Uno di questi è William Travis, che da pilota della RAF decide di andare a pescare squali con la lenza alle Seychelles; in pratica sotto la definizione di “durezza” del dizionario c’è una sua foto. E ha deciso di raccontare la sua vita e le sue avventure in due libri: Caccia allo squalo e Oltre la scogliera. (liberamente tratto da Caccia allo squalo di William Travis ed. Castelvecchi).
Siccome alle Seychelles non esistono impianti industriali di refrigerazione, non è possibile allestire un deposito di esche congelate prima di partire per la pesca, purtroppo. È gioco forza procurarsele dopo che si è arrivati sul «terreno di caccia», prima di iniziare il lavoro vero e proprio.
Talvolta quest’operazione preliminare suscita problemi, e io stavo per sperimentarlo di persona. Dopo aver finalmente portato la Golden Bells proprio dove intendeva lui, Ton Milot calò nell’acqua verde e opaca la lenza sottile per catturare l’esca, mentre gli altri si davano da fare arrotolando corde, affilando coltelli e sgombrando la coperta di tutti gli arredi che non erano necessari. Tanto per cominciare, anche io scrutai fuori dalla fiancata del battello, tentando invano di vedere cosa stava succedendo a più di centocinquanta metri di profondità. C’erano pesci, là sotto? E se c’erano i pesci, vi si trovava pure qualche squalo? Improvvisamente, Ton Milot alzò un dito in segno di avvertimento. Qualcosa stava mordicchiando la lenza. Le diede uno strattone violento, avvicinandola tanto da farla aderire al basso parapetto per aumentare la resistenza. Soddisfatto che almeno un pesce fosse assicurato all’amo, calò di nuovo la lenza appesantita finché non sfiorò il fondo.
Di nuovo qualcosa abboccò. Un altro strattone. Ma questa volta Milot scosse la testa. Mancato! Continuò finché non fu certo che a ciascuno dei sei ami era attaccato un pesce esca, o che l’esca per pesce esca era sparita, divorata da qualche esemplare più piccolo e più furbo.
Lanciò un’occhiata circolare agli uomini: erano pronti tutti, armati di bastoni, di pertiche, di ramponi e di graffi. Poi, con lunghi movimenti ondeggianti delle braccia, il piccolo timoniere grinzoso cominciò a tirare la lenza, in modo che i pesci agganciati venissero su in senza scossoni. Se avesse tirato a strappi il pesce avrebbe risposto opponendo resistenza e i suoi sussulti violenti avrebbero propagato il movimento nell’acqua, annunciando a tutti gli squali dei paraggi la presenza della preda, e per di più in difficoltà. Invito esplicito a una colazione bell’e pronta.
A quanto pareva, avremmo potuto metter mano sulla preziosa esca senza seccature, perché riuscivo a vedere l’estremità della lenza con i pesci che vi penzolavano mollemente fino a una notevole profondità forse a una trentina di metri o poco meno.
Ma Hassan, alla mia sinistra, urlò a un tratto: «Requins!», e indicò il punto dove una sagoma levigata a forma di bomba si stava avvicinando velocemente. Prima che potessimo fare qualcosa, lo squalo, dopo aver sorpassato il nostro pesce con un colpo di coda, aveva eseguito una rapida conversione e vi si dirigeva sopra. Vedemmo la lenza saltare sotto le dita di Milot, ma un bel pesce se n’era già andato, con tutto l’amo e la cordicina. Ne restavano ancora quattro. Ton Milot, con la schiena inarcata, muoveva le braccia nerborute come pistoni, nel frenetico sforzo di salvare le esche. Apparve un altro pescecane, parecchio più sotto, che saliva verticalmente a rapidi colpi di coda, nel tentativo di agguantare lo spuntino che gli stava sfuggendo. Visto dal mio punto d’osservazione, il pescecane somigliava a un reattore da bombardamento: corpo pesante, ali corte, padrone assoluto del suo elemento. La lenza sibilava sopra il parapetto; il resto dell’equipaggio, sporgendosi quanto più possibile in fuori, batteva i fianchi di legno del battello coi bastoni, o agitava l’acqua con le pertiche per spaventare il ladrone. Con un ultimo sforzo disperato Ton-ton tirò i pesci fuori dall’acqua: dondolarono in aria un istante, poi piombarono sulla coperta in un groviglio di fili intricati. Una frazione di secondo più tardi il muso appuntito dello squalo scattò fuori dall’acqua mentre tentava inutilmente, con un ultimo furioso colpo di coda, di seguire la preda. Ma nessuno lo degnò di attenzione, questa volta. Gandhi tramorti i pesci esca – quattro merluzzi di scoglio belli grassi – con la costa di un’ascia. Ton Milot li afferrò uno dopo l’altro dietro le branchie, e torcendoli con destrezza li sganciò dagli ami e li lanciò a Ti-Royale, che attendeva più avanti, anche lui con un’ascia. Un colpo, e via le code. Un altro, e via le teste. Un terzo, ed erano sventrati. Quattro, cinque, sei, sette: ed ecco i corpi smembrati con tagli netti in otto segmenti cuneiformi.
Hassan, intanto, aveva srotolato le lenze per i pescecani, di corda giapponese incatramata dello spessore di dodici millimetri buoni, lunghe ciascuna quarantacinque metri abbondanti. Un’estremità restava libera, all’altra veniva montato l’amo, un affare d’acciaio che faceva paura a vederlo, lungo una quindicina di centimetri e anche più, attaccato a una catena anch’essa d’acciaio di circa un metro assicurata a sua volta alla lenza. Ti-Royale lanciò quattro degli otto pezzi di esca ad Hassan, che si affrettò a infilarli sui quattro ganci. Nel frattempo Gandhi aveva raccolto con una pala le teste, le interiora e le code e le aveva gettate in mare come esca di fondo, e Zulù ave va rovesciato un secchio d’acqua marina sul ponte, per ripulirlo dal l’impasto sdruccioloso di squame e di sangue. Hassan consegnò agli altri quattro le lenze che aveva preparato e ciascuno prese il proprio posto lungo un fianco della Golden Bells. Legato saldamente il capo libero della lenza alle caviglie ad anello fissate sul ponte, lanciarono fuori gli ami muniti di esca, che affondarono rapidamente, tirati giù dal peso della catena.
Ero rimasto seduto tutto quel tempo sul tetto della cabina, osservando con attenzione e chiedendomi come mai da un simile pandemonio apparente potesse risultare un lavoro così ben coordinato e fruttuoso. Per quanto ci provassi, non riuscivo a scoprire traccia, in tutta l’operazione, di un movimento inutile o di un gesto superfluo. Ogni tanto mi dicevo che la Golden Bells, purché dotata di mezzi per lavorare tutto l’anno e con la certezza di pescare sempre nella zona giusta, e non in una che si ritenesse solo pressappoco quella giusta, avrebbe reso bene. Mentre riflettevo così, vidi che Hassan si chinava in posizione di attesa. Ciascuno degli uomini aveva filato sott’acqua la propria lenza lasciandone sul ponte una dozzina di metri, arrotolati fra i piedi. A questo punto la trattenevano con la destra, in modo da farla scorrere fra il palmo e le dita ripiegate, in modo che uscisse sopra la punta dell’indice. Hassan oscillava sulle gambe, bilanciando il corpo per sfruttare al massimo ogni minimo rollio del battello.
Non guardava più la lenza, adesso, ma tendeva l’orecchio, come avesse ascoltato qualcosa. La faccia era vuota di espressione, pareva che tutte le sue facoltà sensorie si fossero concentrate nel braccio teso a metà che teneva la lenza. Improvvisamente, la vidi tendersi e nello stesso istante Hassan oscillò con tutto il corpo in basso e di fianco, così il peso della spalla assecondò il movimento del braccio rigido. Poi afferrò la lenza a due mani, e si chinò fino a toccare il ponte con le nocche; la fune passò sopra e oltre il parapetto, che adesso fungeva da freno. Muscoli e tendini sporgevano lungo le vertebre che parevano ciottoli messi in fila e uniti da stringhe. Poi, di colpo, fu costretto a cedere, allentando la presa a scatti brevi, e la lenza, strisciando rapida contro il legno del parapetto, fumava e sibilava nell’attrito. Fu questione di non più di due secondi; poi la riprese e la frenò. Una sota. Il gioco sfibrante si ripeté un paio di volte. Riuscì a tenerla saldamente. Lo squalo aveva terminato la sua lotta per la libertà.
Mentre Hassan stava lottando col pescecane, Zulù e Ti-Royale uno alla sua destra, l’altro alla sinistra, avevano tirato su le loro lenze, per impedire al bestione di aggrovigliarle tutte e tre con i suoi strattoni furiosi. Poi Ti-Royale si era messo ad aiutare gli altri due preparando la fiocina e un nodo scorsoio di filo metallico. Lentamente, inesorabilmente, i due pescatori presero a tirar su il pescecane. Il corpaccio che aveva perduto tutta l’agilità rollava lungo la Golden Bells appena sotto il pelo dell’acqua. Ogniqualvolta gli sollevavano fuori il muso si rianimava e si dibatteva furiosamente finché non tornava sotto.
Il motivo per cui gli tiravano fuori la testa era di permettere a Zulù i passargli attorno il nodo scorsoio metallico. Finalmente ci riuscì. Una volta infilato il cappio sul muso dello squalo, proprio dietro gli occhi, lo serrarono bruscamente, così stretto che il fil di ferro gli penetrò profondamente nella pelle, dietro la giuntura della mascella. Adesso gli uomini avevano qualcosa di solido contro cui far forza, senza timore di spezzarlo come sarebbe stato invece il caso della lenza. Una volta stretto il nodo scorsoio, ne assicurarono l’estremità libera al cavicchio più vicino e si presero un attimo di riposo. Allora Zulù impugnò il lungo arpione di legno con la sottile punta di ferro, simile nel- la forma a una vanga, e alzandolo sopra la testa menò un colpo in basso, verticalmente, con tutta la sua forza. L’arpione affondò per trenta centimetri, proprio dietro le aperture branchiali, e venne ritirato immediatamente. Lo squalo restò un attimo immobile poi, con un balzo poderoso, si rizzò fuori dell’acqua, con i malvagi occhi di gatto all’altezza dei nostri: pareva che si reggesse sulla coda.
A questo punto il cappio metallico lo frenò bruscamente. Ricadde di peso, in una tempesta di schiuma a sfumature rosate. Si dibatté ancora qualche secondo, rotolò sul fianco e Zulù lo colpì di nuovo con l’asta appuntita. Un altro agitarsi convulso, ma non più tanto violento. E così, parecchie volte, finché l’animale entrò in agonia e la vita uscì da lui coi rivoli di sangue che serpeggiavano nell’acqua come spire di fumo. Hassan, Zulù e Ti-Royale tirarono su il testone massiccio, a livello del parapetto. Niente più movimento, adesso. Finita la lotta. Ma gli occhi verdi di gatto continuavano a fissarci, biechi, e la mascella spalancata pendeva repellente, mostrando file su file di denti triangolari e crudeli. Non lo issarono subito a bordo perché i pescecani, benché morti in tutto il significato della parola, hanno la pessima abitudine di tornare a una parvenza di vita. I loro riflessi spasmodici inducono i pescatori a tenere lo squalo appiattito contro la fiancata del battello per parecchi minuti di fila, quando già da mezz’ora e più se ne sta quieto completamente ed effettivamente morto.
Tutta l’azione era durata forse dieci minuti, a partire dal momento in cui Hassan aveva sentito quel primo strattone violento alla lenza. Gli uomini avevano avuto ragione della forza vitale dello squalo.