La lezione del Seveso: perché i fiumi non vanno violentati

Milano allagata dopo una piena del Seveso

Martedì mattina ricevo una chiamata del mio capo. <Devi andare a Niguarda, il Seveso è di nuovo per strada>. Non è la prima volta che mi succede, come cronista di Repubblica, di occuparmi dei capricci del fiume che scorre sotto (e spesso anche sopra) l’asfalto dei quartieri a Nord di Milano. Negli ultimi 40 anni le esondazioni “di certa rilevanza” – con il termine usato dall’ente di bacino del Po – sono state 28. In totale, nel periodo compreso fra il 1976 e il 2000, il fiume che scorre sotto la città è uscito dai tombini 62 volte. Dopo il 2000, la frequenza delle piene è diminuita. Ma gli effetti sono stati via via più violenti, con un’esondazione record (almeno, fino a martedì 8 luglio 2014) il 19 settembre 2010, quando l’acqua fece danni in città per 70 milioni di euro, costringendo Atm a chiudere 3 stazioni della linea Gialla della metropolitana.

Disagi a Milano per l'alluvioneOgni volta che il fiume di fango esce dai tombini e allaga i quartieri a Nord della città succedono alcune cose: 1) la Regione incolpa per quanto successo il Comune, che a sua volta dà la colpa alla Regione  2) i residenti delle case popolari di Niguarda si infilano gli stivali di gomma (che ogni famiglia ha pronti nell’armadio) e si danno da fare per pulire dal fango scantinati, sedili delle auto e marciapiedi 3) Comune e Regione annunciano “imminenti interventi idrici” per risolvere il problema. Imminenti interventi che  poi non vengono mai realizzati, da quarant’anni, anno dopo anno.

Martedì, dicevo, il mio capo mi chiama e mi dice di andare a Niguarda. Per i non milanesi: Niguarda è un quartiere popolare nella periferia settentrionale della città. Prendo la moto e decido di passare dall’Isola. Per i non milanesi: l’Isola è un quartiere un tempo popolare del semi-centro, ai piedi dei nuovi grattacieli che negli ultimi anni stanno trasformando l’ex zona Garibaldi in una piccola “down town”.
Arrivo all’Isola e la trovo allagata. Non me lo aspettavo. <Qui l’acqua del Seveso non l’avevo mai vista>, penso. <Fin qui l’acqua non era mai arrivata>, confermano i residenti di via Il Seveso esondaBorsieri e via Confalonieri. Capisco che questa volta il fiume ha esagerato. Non ha allagato solo i “suoi” quartieri, si è spinto oltre, ha riempito di fango un’area di 3,5 milioni di metri quadrati che dall’ospedale di Niguarda arriva fino alla stazione Garibaldi. <Come è possibile un cosa simile?>, mi chiede un’anziana dell’Isola, guardando la strada dove è nata trasformata in palude. <Non ne ho idea>, le rispondo, sincero. In questi tre giorni, in cui mi sono occupato a tempo pieno del Seveso e dei suoi capricci, un’idea me la sono fatta.

Direte <e cosa c’entra con la pesca?>. C’entra.

Il Seveso ce l’ha con i milanesi perché i milanesi lo hanno sempre maltrattato.

I primi abitanti di Milano di epoca romana, nel secondo secolo Avanti Cristo, decisero di deviare le acque del Seveso per farlo passare più vicino possibile alla città. Che ai tempi non era neanche una vera e propria città, ma un campo militare circondato da bordelli, locande e mercati mobili. Nel primo secolo Dopo Cristo – ai tempi della costruzione del primo porto fluviale milanese – venne documentata dai cronisti del tempo una violenta piena del Seveso, prima di una serie lunghissima, dovuta probabilmente proprio alla deviazione del corso. Nei secoli la città crebbe di dimensioni e le acque del Seveso – che nasce a Monte Sasso, al confine con la Svizzera, e dopo 52 chilometri sfocia nel Lambro – furono utilizzate per fare funzionare un numero crescente di mulini (fino al record di 23) e per alimentare decine di piccoli canali d’irrigazione. Nel 1471 fu costruito il Naviglio Martesana, le cui acque in eccesso furono convogliate nel Seveso. Nel Diciannovesimo secolo, con l’espansione della città verso Nord, si decise di “tombinare” il fiume, vale a dire costringerlo sotto il livello del suolo, in un condotto angusto. L’ultimo e definitivo (per ora) intervento di tombinatura risale al 1953, quando il Seveso fu coperto completamente nel suo passaggio milanese, a patire da via Ornato. E quello fu l’inizio dei peggiori guai.

Strade chiuse a causa dell'esondazione del Seveso
Se il fiume si gonfia di pioggia nel tratto alto (attraversa tutta la Brianza), arrivato in città non ha dove sfogarsi. Gli argini artificiali non sono in grado di contenerne la sua intera portata nei momenti di piena. Perché il Seveso – ed è questo il punto – è un fiume, non un canale. Non nasce “regolato”, come i Navigli. Nasce selvaggio. E’ a tutti gli effetti un torrente, anche se a vederlo scorrere alla periferia della città, verde e lento fra due murate di cemento, non lo si direbbe.

Nel 1980 è stata completata la costruzione di un canale scolmatore a Palazzolo Milanese, a valle della città. Lo scopo è raccogliere le acque del fiume in eccesso in caso di piena. Funziona, ma non basta. Un secondo scolmatore è in progetto da sempre, ma nessuno dei Comuni a Nord di Milano (anche comprensibilmente) sembra disposto a ospitare quelle “vasche di laminazione” che consentirebbero di convogliare le acque che periodicamente si riversano nel quartiere Niguarda e ora anche l’Isola. Quando anche le amministrazioni dei paesi dell’hinterland sono sembrate favorevoli alla costruzione delle vasche, a fermare tutto ci ha pensato la burocrazia. Quando c’erano i permessi, a mancare sono stati i soldi necessari. E si tratta di tantissimi soldi.

Gli effetti dell'esondazione del SevesoEcco cosa c’entra la pesca. Oggi mettere a posto la situazione compromessa del Seveso è un affare complicato. Il fiume scorre sotto la città e sventrare le strade è costoso in termini economici e di viabilità. Anche i territori dove si vogliono costruire gli scolmatori sono fortemente urbanizzati e l’opera dovrà tenerne conto.

Ma cosa sarebbe successo se, ai tempi dell’antica Roma, i pescatori  con le reti a bilancia si fossero opposti alla deviazione del corso d’acqua, per evitare la devastazione dei letti di frega dei pesci e lo stravolgimento dell’ecosistema che dava loro da mangiare? E se nei secoli successivi i primi pescatori “per diletto”, con filo di crine e amo d ferro, si fossero opposti al proliferare dei prelievi idrici, che tolgono l’acqua in cui nuotano i pesci? E se, ancora, i pescatori a mosca (un tempo nel Seveso c’erano i temoli!) a fine ‘800 si fossero messi di traverso contro l’ipotesi delle tombinature semplicemente per potere … pescare sotto casa?! Ok, un tempo non esisteva la coscienza ecologica che c’è oggi. E probabilmente le acque erano tanto ricche di pesce che per ogni fiume che veniva “ucciso” da interventi umani, ce n’era un altro da vivere e pescare. Ma oggi non abbiamo scuse. Conosciamo gli effetti devastanti che dighe (senza scale di rimonta), argini artificiali troppo angusti e tombinature possono avere sui corsi d’acqua. Le conosciamo perché siamo pescatori, quindi conosciamo il fiume, lo viviamo come nessun altro, ci passiamo il nostro tempo. I pescatori possono salvare il Seveso? Ormai non più. La situazione è troppo compromessa. Ma avrebbero potuto di certo salvarlo quando ancora era salvabile. Quello che possiamo e dobbiamo fare è fare da “sentinelle” per evitare che casi come quello del Seveso si ripetano. Un buon esempio è la lotta – sembra vittoriosa – che pescatori e ambientalisti stanno conducendo insieme per evitare la costruzione di una diga a San Salvatore sul Trebbia, che stravolgerebbe l’ecosistema con conseguenze difficilmente immaginabili, sulla fauna ittica e per i territori circostanti.

Se i cittadini “normali” hanno tutto il diritto di non accorgersi cosa sta succedendo ai nostri fiumi fino a quando non trovano le strade allagate, noi non abbiamo scuse. Visto che conosciamo i fiumi, diamoci da fare per difenderli!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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