Sale, metallo e rosmarino

Un racconto di Paolo Goldaniga.

E’ complicato essere iperattivi, è complicato nella vita moderna anche se si ama il proprio lavoro; complicato spesso però vuol dire ancora più eccitante, quando l’unico limite è il tempo, rubare qualche minuto, ora, giorno, per seguire il richiamo ancestrale del fare, della fatica, del brivido.

Passione.

È seriamente complicato essere iperattivi quando un decreto ministeriale impone di restare a casa, di limitare i movimenti e i rapporti sociali. Per persone come me è difficile addirittura comprendere il concetto di rallentare o addirittura “fermarsi”, era un’opzione che non avevo mai preso in considerazione finora. Fino a marzo di quest’anno.

Ma negli ultimi anni ho imparato due cose: a non salire in montagna solo per raggiungere la vetta e non andare a pescare solo per catturare il pesce della vita. Ci sono un sacco di cose interessanti nel mezzo.

Perciò mi sono messo l’anima in pace, ho riempito un bel bicchiere di grappa e ho cominciato a ricordare il più bel viaggio di pesca dell’anno passato.

Da diversi anni ormai non mi reputo più un purista, le mie radici geografiche e storiche sono fatte di migliaia di uscite dedicate unicamente alla pesca del Bass, ma il desiderio di sperimentare e la necessità di sperperare ingenti (e quasi sempre inutili) somme economiche per materiale da pesca, mi hanno spinto ad allargare gli orizzonti. Il mare primo fra tutti.

Da pescatore di acque dolci, credo che la cosa che più affascinante del mare sia la sua imprevedibilità; la sua capacità di ribaltare situazioni e pronostici, sia nel bene che nel male.

Questa storia ne è la conferma.

Durante ogni viaggio di pesca si sceglie una piccola fetta di mondo e la si fa propria, che siano due giorni o un mese e quando si arriva a destinazione il tempo e lo spazio assumono un significato diverso, unico, più importante probabilmente. Ogni ora, ogni curva, ogni alba e ogni ragionamento si aggrappano saldamente alla memoria, plasmando il nostro modo di essere da lì in avanti.

Questa volta siamo partiti in tre ed era la fine di ottobre, poco prima delle grandi piogge che per un mese hanno investito la penisola; la nostra guida vegliava su di noi dal lontano Trentino, assente ma presente.

Il padrone di casa, Gaio, è un pescatore subacqueo con la “P” maiuscola, minuto, strutturato, compatto e abbronzato anche nel cuore dell’inverno, tante storie da raccontare quanti sono i gabbiani del porto. Appena arrivati ci lasciamo subito rapire dal fascino dei suoi racconti sulle grandi Ricciole all’aspetto nel blu e dal montone dei Dentici; come se servisse la carica sale ulteriormente e il primo tramonto sull’acqua si avvicina.

Ruben, il soldatino. Irriducibile vulcano di energia positiva, un eterno entusiasta che compensa i pochi anni di spinning con un inguaribile ottimismo e un’attitudine all’acqua e ai pesci difficili da trovare.

Edo. Un vero e proprio maratoneta da scogliera, non credo esistano molte persone in grado di reggere i suoi ritmi di pesca e il numero di lanci che è in grado di fare in una sola giornata. Il più giovane ma forse il più adulto.

Io. Mamma, pignolo e cuoco.     

Il primo tramonto ci accoglie con un giusto cappotto, che incassiamo con sana sportività, quasi come fosse rituale, il giusto prezzo da pagare o una sorta di tributo. Una pessima pizza e una discreta birra e siamo pronti alla prima alba.

Siamo nuovi del posto, non conosciamo gli accessi e le scogliere o meglio, la nostra guida Trentina ce li ha insegnati, ma preferiamo calcare passi saldi e percorrere i sentieri prima con la luce. Perciò tutta la poesia della prima alba, si risolve nel porto del paese dove alloggiamo e la fortuna vuole che una discreta palamita decida di offrirsi volontaria per cena.

Il pomeriggio finalmente si cammina, si inizia a pestare della terra rossa, dei sentieri larghi due spanne e nonostante sia novembre si suda. Fare fatica da valore ad ogni cosa, la rende speciale e non per tutti. Egoistico ma schietto.

Ora sappiamo dove andare.

Avvicinandomi allo spinning marino ho imparato ad apprezzare, con rispetto, il sapore verace del pesce fresco pescato in giornata; quello che non ha quasi bisogno di condimenti, quelli essenziali e un calice di ottimo vino, bianco e fermo. Credo che nessun pescatore possa definirsi tale se non apprezzi il buon mangiare e il buon bere. Fortifica l’anima.

E poi la tartare di palamita fresca è semplicemente favolosa!

4.45

Non si è mai pronti a una sveglia così, arriva come un pugno, secca e inesorabile ma in pochi attimi si realizza e il motivo diventa un’opportunità, che abbiamo scelto di andarci a prendere.  

È come se si avesse paura di rompere un equilibrio, parlando intendo, forse sarebbe meglio un religioso silenzio, forse sono solo tutte superstizioni e i pesci nella realtà, fanno esattamente quello che farebbero senza che noi ci alzassimo alle 4.45 del mattino.                                                               

Tocca a me guidare, mezz’ora nello scenario surreale delle strade notturne e degli sterrati del mare d’inverno.

Il sentiero è segnato, lo abbiamo percorso la sera prima, ma alla luce delle pile frontali è tutto diverso, più vivo e vero, come se il buio avesse la capacità di modificare l’ambiente che ci circonda. Il primo tratto è una costa trasversale della classica macchia mediterranea che ci avvolge coi suoi profumi potenti di rosmarino selvatico e terra che ha sete, si concede un metro alla volta bagnandoci di rugiada i pantaloni e gli scarponi.

Quando siamo in cima alla scogliera è Ruben a prendere l’iniziativa, il più in incosciente e più agile è di certo il candidato ideale, noi lo seguiamo fiduciosi dal fascio delle nostre torce. Scende come un Geko, leggero e divertito ed in pochi minuti ci indica la ovvia via per la sponda.

Il buio è totale, non ci sono né luna né stelle e il mare è quasi completamente calmo; l’unico suono è quello di una la leggera risacca e lentamente anche il respiro si regolarizza dopo lo sforzo della discesa. Ci lasciamo cullare per qualche istante da una sensazione primitiva di unicità, che solo la ricerca di questi posti e la nostra passione sono in grado di darci.

I nostri artificiali iniziano a volare verso il nero dell’orizzonte, inghiottiti dall’elemento liquido dove ancora non si riesce a vedere. Tutta la concentrazione viene veicolata sul movimento cadenzato del cimino della canna, che ritmicamente viene alzato e abbassato, alzato e abbassato; il buio non concede di cogliere segnali sulla superficie, perciò tutta la sfera di attenzione gravita in quei pochi centimetri, in attesa dello stop secco.

E’ Edo che rompe il silenzio! –Pesceeeee!!– Ci voltiamo entrambi nella sua direzione carichi di speranza, giusto in tempo per intravedere la fine della prima corsa della preda che si esaurisce prima del tempo, andato.

Ritorniamo nella nostra bolla semi buia con una rinnovata dose di convinzione,

sta iniziando timidamente a schiarire e stiamo entrando nel momento più cruciale della giornata.

Pesce! E’ ancora Edo a ferrare, e finalmente a spiaggiare, il primo discreto barracuda della mattinata; pochi istanti e Ruben lo segue con un altro della stessa taglia. Io fermo con le orecchie basse, che sia il colore dell’esca? O il modo in cui la recupero? Ci pensa un barracuda a distogliermi dai miei pensieri con un deciso tonfo sulla pausa del recupero. Ora ci siamo!

L’orizzonte comincia a delinearsi ed il cielo a prendere i colori potenti e nitidi dell’alba, il momento magico inizia a passare e le nostre aspettative di altre catture iniziano a vacillare; tranne quelle di Edo, le sue non vacillano mai.

E’ già quasi giorno quando un lieve colpetto sulla canna mi suggerisce che l’attività in superficie non è ancora finita, già perché i maledetti Cuda spesso si limitano a musare l’esca senza morderla. Cerco di rallentare il recupero e prolungare le pause perchè pare che questa tecnica gli piaccia ..  gli piace!

Il tonfo è sordo è la ferrata istantanea, il pesce pare bello e prende addirittura qualche metro di treccia dal mulinello. Mentre me lo godo i ragazzi volano sulle rocce per aiutarmi a salparlo, il mare è sempre calmo e l’operazione riesce rapidamente; credo sia il Barra più bello della mia carriera salata!

Ormai è giorno, il sole di novembre si è alzato nel cielo e noi ci siamo fermati per una seconda colazione sdraiati sulle tiepide e poco accoglienti pietre nere della scogliera. Non pesco più con lo spasmodico desiderio di catturare il pesce della vita, come dicevo, ci sono tantissime cose piacevoli nel mezzo. Godersi il tepore e il silenzio fa parte di quelle cose, ne fa parte finchè Ruben non si alza di scatto urlando e indicando un punto poco distante da noi, dove quattro sagome azzurro fosforescenti pattugliano sotto il pelo dell’acqua. Lampughe!

Quasi immediatamente un WTD atterra sulla loro traiettoria e nello stesso istante tutti e quattro i pesci partono in una sorta di inseguimento e falsi attacchi che hanno più del gioco che della vera predazione. Arrivano fin sotto ai nostri piedi tra fragorosi spruzzi, mezzi salti e timidi attacchi; sembra davvero incredibile che in tutto questo delirio colorato nessun pesce abbia voluto o forse sia riuscito a restare allamato. La scena si ripete altre due o tre volte poi, esattamente come sono apparse, le quattro lampughe spariscono dalla nostra vista. Ruben è rimasto come folgorato, ama questi pesci e brama da anni di poterne catturare uno di taglia perciò, mentre noi facciamo cambio canna verso lo shore jigging, lui si apposta come una vedetta su una punta di roccia ed inizia ad osservare il mare cercando di avvistarle nuovamente.

Io e Edo iniziamo a sondare gli strati d’acqua più profondi con fette di piombo da 80 e 100g, fiduciosi che qualche pesce di taglia voglia premiare la nostra buona speranza. In poco più di un ora saranno solo alcune ricciolette ad illuderci, ma restiamo davvero sorpresi da come questi piccoli carangidi siano aggressivi e combattivi a dispetto della piccola taglia che hanno in questa stagione.

Con lo scaldarsi dell’atmosfera si alza anche il vento da ovest e le onde iniziano a battere sugli scogli, bagnandoci un poco e coprendo con il loro rumore le nostre comunicazioni. Ci mettiamo infatti diversi secondi a percepire le (apparentemente) fortissime grida di Ruben, nonostante la breve distanza, giusto in tempo per vedere controsole la sagoma di una lampuga volare letteralmente in aria! La nostra reazione è immediata ma senza che ce ne accorgessimo il Soldatino aveva già stancato il pesce e nel tempo di raggiungerlo è già pronto per essere salpato sulla sponda, così una splendida lampuga giace in una pozza al sicuro da nuove fughe e lui è al settimo cielo.

Oltre che dai suoi vividi colori, restiamo subito colpiti da una profonda ferita che l’esemplare presenta all’altezza della pinna dorsale, uno sbrego profondo che attraversa tutta la schiena da parte a parte, rendendo visibile addirittura una vertebra. Fa riflettere come questi animali riescano a sopravvivere ed alimentarsi dopo un trauma simile.

Ci interroghiamo a lungo su cosa possa averle procurato una ferita del genere, senza però trovare risposta

Torniamo sui nostri passi, appagati da una mattinata esaltante ma già con la testa sulla nuova uscita in programma. Una volta a casa consegnamo le prede trattenute a Gaio e gli mostriamo la strana ferita della Lampuga in cerca di lumi.

Un tiro di fucile mal riuscito– questo è il verdetto. Osservando attentamente la zona colpita è stato possibile infatti cogliere il punto d’ingresso e di uscita dell’asta nella carne del pesce, credo non ci saremmo mai arrivati da profani della pesca sub.

Trascorrono un paio di giorni tra tanti chilometri guidati e camminati, pochi sporadici pesci e diverse ore di pioggia battente che ci costringono addirittura a sospendere la pesca per cercare rifugio in uno dei pochi locali aperti in settimana e a novembre.

Ma il morale resta alto, il vento gira e il tempo si aggiusta; è di nuovo il momento di esplorare, di cercare acqua profonda, perché in cuor nostro sappiamo che i pesci che stiamo cercando stanno li.

Questa volta l’avvicinamento è davvero lungo e si snoda dapprima in un basso vigneto accartocciato dal vento e poi in un fitto boschetto di arbusti duri come nervi, la stradina è spesso coperta dalla vegetazione ma con qualche aiutino satellitare in poco meno di un ora siamo in vista della nostra punta.

Sulla destra, nascosta da una grande roccia bianca, c’è una spiaggia di ciottoli sormontata da potenti pareti verticali, mi chiedo quindi come possa il mare essere profondo a così poca distanza da una spiaggia. Sono gli infiniti secondi di caduta del Jig da 80g a darmi torto e a confermare le parole della nostra guida –varda che lì fischia giù bene il mare

E’ metà pomeriggio e abbiamo diverse ore prima del fatidico cambio luce, ci concentriamo quindi sulle pesche di profondità: io e Edo a Shore Jigging e Ruben a gomma.

Alcune delle immancabili Ricciolette ci tengono compagnia ma sembrano gradire solo ed esclusivamente il metallo; perciò dopo qualche cattura propongo a Ruben di fare qualche lancio con la mia canna e approfittarne per riposare qualche minuto. Inizialmente riluttante alla fine si lascia convincere e io mi siedo accanto a lui dandogli le poche nozioni che ho di questa tecnica che sto ancora imparando a conoscere.

Succede immediatamente: Ruben carica il lancio, frusta verso il largo l’esca e la canna esplode in uno schiocco tremendo.

Restiamo tutti e tre ammutoliti, nessuno ha il coraggio di reagire e naturalmente entrambi mi fissano per capire quale sarà la mia reazione. Rompere una canna è sempre un momento difficile, rompere la canna di un amico è davvero complicato.

Ruben è a dir poco mortificato ma in fin dei conti sarebbe successa la stessa a me pochi lanci dopo o, peggio ancora, con il pesce in canna; perciò lo tranquillizzo e dopo qualche minuto siamo già a scherzarci sopra.

Il tramonto è ancora lontano perciò accetto l’offerta di Ruben di utilizzare la sua canna e adattarla alla pesca per cui non è stata progettata, ci spostiamo di un centinaio di metri sulla sinistra per sondare nuove traiettorie e ricomincio a lanciare mentre chiacchieriamo come se nulla fosse successo.

Passano circa quaranta minuti: lancio, faccio affondare, recupero animando l’esca, vario la cadenza della canna, faccio riaffondare e ripeto, rilancio pochi metri più o sinistra o a destra; sempre con la stessa illusione che quello sia il lancio giusto. Si perché mandare le proprie esche così in profondità esercita un fascino tremendo sul pescatore, regala un senso di esplorazione quasi primitivo e l’invisibilità di quello che può succedere laggiù, aggiunge quel pizzico di intramontabile speranza.

Però la zona è davvero bella, il taglio della costa e la successiva caduta di profondità sono proprio interessanti: decidiamo quindi di chiamare Edo e far provare lui con esche più voluminose e pesanti.

Edo ha un credo: poca attrezzatura, ma al massimo della qualità che il mercato possa offrire.

Perciò dopo una buona serie di lanci a vuoto, mi sale la curiosità di provare un attrezzo che costa come metà dei mobili della mia cucina. Visto il triste destino toccato alla mia canna, Edo è giustamente un po’ riluttante e inizialmente preferisce solo farmi recuperare il lancio che lui ha fatto.

Che canna! In effetti ogni vibrazione e sobbalzo dell’esca viene trasmesso fino alla spalla e la sua leggerezza non affatica il braccio, nemmeno recuperano pesi di oltre 100 g da cinquanta metri di profondità. Visto il buon esito del primo recupero Edo si ammorbidisce e mi suggerisce di fare un secondo lancio per gustare meglio questo attrezzo di livello.

Eseguo. Il jig atterra in acqua con un tonfo sordo in un punto lontano all’orizzonte, la treccia scorre tra le mie dita cambiando colore fino a toccare il fondo, chiudo l’archetto è inizio a jiggare con ritmo regolare. Mi godo la canna e la situazione e verso metà recupero apro nuovamente l’archetto e faccio affondare ancora l’esca, tocco il fondo e riparto come altre mille volte quel giorno e i precedenti.

Tutto si arresta, nell’alzare la canna tra una jiggata e l’altra il cimino resta lì, fermo verso il fondo ma con una viva vibrazione addosso. Sono quasi stranito, in una frazione di secondo l’impulso passa direttamente al braccio, senza dare il tempo al cervello di ragionare, il mio corpo si contrae e riesco a dare una poderosa risposta a  qualunque cosa ci fosse dall’altra parte.

Passo in pochi in pochi secondi dalla leggerezza di un qualsiasi momento di pesca ad una lucidità e freddezza quasi militare, improvvisamente non posso e non voglio sbagliare nulla, perché il mare ha deciso per me.

La forza che sento dall’altra parte è poderosa, sorprendente ed esplosiva. So di non poter concedere al pesce nemmeno un metro e il –tira Pol, tiraaaa– che sento alle mie spalle mi da ulteriore carica. La frizione è quasi completamente chiusa, non concedo nulla al pesce e nonostante ciò lui si beve alcuni terrificanti metri di treccia, io rispondo con delle vigorose pompate che accorciano un po’ le distanze. Lo sto letteralmente strappando dal fondo, so che se dovessi concedergli anche solo un metro potrebbe prenderselo e rompere la treccia; anche se immagino non sia passato più di un minuto mi bruciano i muscoli e sono sudato. I miei amici mi incitano e finalmente intravediamo la sagoma argentata del pesce salire dal blu del fondo, ne ha ancora e vibra energicamente; ora che l’ho visto sono ancora più concentrato per non perderlo.

è una Ricciola!!– mi grida Edo nelle orecchie, mentre si prepara per salparlo, nel frattempo Ruben si materializza alle mie spalle motivandomi come solo lui sa fare. La Ricciola aggalla ed immediatamente riparte verso il fondo, alzo d’istinto la canna e le giro la testa verso la sponda recuperando gli ultimi metri che ci separano.

Quando Edo la alza dall’acqua, per un istante cala il silenzio, come se potesse ancora succedere qualcosa; poi, quasi d’accordo, tutti e tre gridiamo di gioia al cielo, folli di felicità!

Edo mi porge la preda, con una mano la tengo e con l’altra lo abbraccio ringraziandolo di quell’unico e magico lancio, Ruben mi sputa in faccia insulti affettuosi e io mi trovo, come al solito dopo una grande cattura, per terra a tremare di adrenalina.

La adagiamo in una pozza di acqua d’acqua portata dalle onde e la osservo: un pezzo di metallo rosa solcato da una decisa e netta riga gialla, gli occhi spennellati di bronzo, senz’altro uno dei pesci più belli che abbia avuto l’onore di catturare.

Passano diversi minuti, riprendo il controllo e chiamo Ninni. Vorrei abbracciarlo ma la distanza e la bassa ricezione non me lo consentono, quindi mi limito a ricoprirlo di ringraziamenti e parole d’amore incondizionato.

Come sempre dopo una grande (almeno per me) cattura, cerco di ritagliarmi qualche momento di solitudine per ringraziare il mare, la natura o chi per essi, mi abbiano concesso di vivere momenti così intensi.

Torno gongolando dai miei compagni di avventura e ringrazio anche loro, perché credo che la vera bellezza di certi momenti sia di viverli con persone che abbiano la tua stessa tremenda energia.

Il tramonto non ci concede altre emozioni e la lunga strada del ritorno incombe sulle nostre membra stanche dalla giornata di pesca; cerco di assicurare in qualche modo la Ricciola allo zaino e iniziamo a salire avvolti dal buio.

Una volta a casa la stanchezza ci travolge, giusto il tempo per un brindisi e crolliamo a letto.

Domani sarà di nuovo pesca, domani ci sarà una nuova storia da raccontare e ancora una volta il mare riuscirà stupirmi.

Ci sono volute alcune settimane a scrivere questo racconto, settimane complicate, certamente storiche; ma domani tutto finirà e sarò lì sul fiume, da solo, a vedere salire il sole. Farò un sorso di grappa e l’altro lo verserò nell’acqua che corre, poi riprenderò tutto da dove l’avevo lasciato.

Paolo Goldaniga

(Paolo, detto Pol, è un carissimo amico di Anonima Cucchiaino, compagno di tante pescate. Questo è il suo quarto articolo scritto per noi. Scopri gli altri tre, uno dedicato ad un grande bass qui, uno ad un pesce serra da record ed uno sul rapporto pescatore di trote e fiume qui. N.d.R.)

2 Comments

  • Andrea ha detto:

    Ci sono i racconti di pesca, poi ci sono i bei racconti di pesca, ce ne sono certi che ti appassionano anche e poi ci sono i racconti come questo, che entrano nel cuore e ti emozionano per davvero.
    Complimenti per le emozioni che sei riuscito a trasmettere e per un pesce semplicemente favoloso!

  • Paolo Goldaniga ha detto:

    Grazie Davvero Andrea, i tuoi complimenti sono arrivati dritti al cuore! È un vero piacere condividere la nostra passione

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