Una sorta di romanzo di formazione (alieutica naturalmente) che si legge con grande facilità e parla di realtà che conosciamo bene come la pesca in pianura e lo Spinning Club Italia – grazie anche al quale al protagonista vengono svelati i misteri piscatori. Sono pagine schiette, che sembrano uscite di getto dalla penna dell’autore, dalle quali traspaiono tutte le emozioni che tutti conoscono e che tutti hanno vissuto. Liberamente tratto da Il misterioso libro del nonno sulla pesca di Enzo Venturini ed Streetlib.
L’ATTESA PUÒ ATTENDERE
Doveva essere un giorno di inizio primavera, erano già passati svariati mesi da quando avevo acquistato la canna spinning. Ricordo che sulla superficie dell’acqua del fiume si stava adagiando un orda di bianchi piumini. Questi, sfuggiti alle fronde dei pioppi, fluttuavano nell’aria contesi dalle forze del vento e della gravità, fino ad atterrare inesorabilmente sulla riva o nel corso d’acqua. Il fiume era il “mio” fiume, il Santerno.
Mio perché dà il nome al paese in cui abito.
Mio, perché scorre proprio dietro casa.
Mio, perché è stato, per me, il piccolo teatro di tante battute di pesca.
Ma la scena, questa volta, era completamente diversa. Infatti non mi trovavo nel tratto di fiume a me avvezzo che scorre placido nella pianura della bassa Romagna, ma bensì più a monte. Il mio, ormai, compagno di club Lucio, mi aveva portato più su, dove la collina rendeva il fiume a carattere torrentizio.
Lì, a tratti, la corrente era più forte e l’acqua è limpida come quella in bottiglia. Sinceramente non ero abituato a vedere chiaramente ciò che l’acqua del fiume contiene, anzi, per me l’opacità di quest’ultima era quasi un assioma. Eppure là potevo distinguere i rami e i massi sommersi, le increspature rocciose del fondo e incredibilmente i pesci!! Eccoli lì, sotto il pelo dell’acqua, scorrazzanti in cerca di cibo, gruppetti di piccoli cavedani e, più in profondità, sfuggenti ombre di grossi esemplari.
L’attrezzatura acquistata, fortunatamente, era adatta alla situazione a parte l’esca, che mi venne prestata gentilmente da Lucio per l’occasione: un pesce finto in legno, lungo approssimativamente cinque centimetri, con la schiena scura, corpo argenteo e ventre bianco. Apparentemente le esche in mio possesso erano un po’ troppo piccole. Insieme all’esca mi fu prestato il famigerato paio d’occhiali da sole con lenti polarizzate. Il negoziante aveva ragione! Le lenti eliminavano il riflesso del sole sull’acqua, permettendo alla vista di scorgere tutto ciò che avveniva sotto la superficie. L’azione di pesca che avrei dovuto adottare, nella teoria, era chiara e ingannevolmente semplice. Individuato un pesce bersaglio in caccia nei pressi della superficie, il gioco consisteva nel lanciare l’esca in prossimità dello stesso e recuperarla in modo che il suo moto fosse costante e lineare.
In realtà, come spesso accade, il “diavolo sta nei dettagli” e così era anche in questo caso. Il lancio doveva essere il più possibile vicino al pesce, ma non propriamente sul pesce, per non impaurirlo. L’arte vera si nascondeva nel riuscire a chiudere l’archetto del mulinello qualche istante prima che l’esca toccasse l’acqua. In questo modo l’esca entrava subito in azione e la canna era pronta a reagire ad un eventuale attacco immediato del pesce. Infine il recupero doveva avvenire alla velocità giusta, né troppo lenta né troppo veloce ed essere lineare, non a strappi. Al limite la velocità di recupero poteva variare leggermente per invogliare all’attacco un pesce in inseguimento dell’esca.
Insomma ce n’era a sufficienza per rendere ardua l’impresa ad un pescatore alla sua prima uscita. Come se non bastasse , dopo pochi lanci, mi resi conto che dovevamo fronteggiare un’ulteriore dificoltà. La suggestiva nevicata di piumini, grazie al gioco delle correnti, aveva creato in acqua alcune zone dove la superficie era ricoperta completamente da uno strato bianco e compatto di questa pastosa sostanza. Così, spesso, l’artificiale si trovava ad annaspare in questo impasto informe e tornava a riva rivestito di bianco. La situazione sembrava mettere in difficoltà anche il mio compagno di pesca, anche se sapeva destreggiarsi nella problematica con maggiore scaltrezza.
Comunque, dopo svariati lanci a vuoto, Lucio riusci a catturare il primo cavedano. La cattura di Lucio mi diede un nuovo slancio, infatti l’entusiasmo iniziale stava scemando facendo posto alla frustrazione, crescente ad ogni lancio a vuoto. Quando Lucio catturò il secondo cavedano però l’avvilimento ritornò e si trasformò presto in irritazione. Sembrava che anche questa uscita si sarebbe tramutata nell’ennesimo buco nell’acqua, o meglio, in una sequela di “buchi” in acqua. Fino a quel momento avevo, come massimo risultato, attirato l’attenzione di qualche cavedano che aveva seguito la mia esca per qualche decina di centimetri per poi perdere interesse nella stessa. Lucio mi invitò alla calma e alla pazienza, che, sapevo essere alla base della pesca, ma questa tecnica sembrava avere il potere di farmelo dimenticare. Così, giunti in un punto dove il fiume si allargava e rallentava la velocità del suo corso, appena a monte di una piccola chiusa, ripresi i miei lanci. Il pesce finto dalla livrea argentea si rituffò nell’acqua del fiume, provocando il solito tonfo sull’acqua e sollevando qualche schizzo. Ma, anche questa volta, la rumorosa entrata in acqua non aveva sortito alcun attacco immediato. Allora iniziai il solito recupero lineare, ormai sempre più svogliato e sfiduciato. Improvvisamente un cavedano comparve appena dietro l’esca ed iniziò l’inseguimento.
La scena era già nota ormai e la cosa non accresceva di molto la mia speranza di cattura. Decisi di aumentare leggermente la velocità di recupero man mano che l’esca si avvicinava alla riva e il pesce fece lo stesso rimanendo in scia. L’artificiale stava per raggiungere la sponda e con essa la fine della sua corsa, l’ennesima a vuoto; quando inaspettatamente il cavedano accelerò di scatto e si fiondò sull’esca. L’attesa era finita! Come una scarica d’adrenalina nel sangue, l’attacco del pesce si propagò lungo la sottile lenza e quindi attraverso la flessibile fibra in carbonio della canna per giungere quasi immutata sulle mie mani. Era giunto finalmente quell’attimo che attendevo ormai da mesi e non aveva tradito le aspettative: un istante infinito in cui la forza crudele e vitale dell’istinto animale si può afferrare e fare propria. Il combattimento fu breve, sia per la scarsa resistenza del cavedano che per la sua vicinanza alla riva, ma la gioia fu immensa. Ma quel che più importava era aver assaporato il gusto di quel tanto atteso attacco, che, come una droga, mi avrebbe spinto a tornare sulle rive dei fiumi e dei laghi in cerca di un attimo eterno di Vita.
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